Farebbe molto male il
lettore, per ansia di conoscenza dell’alta scuola, ad iniziare la lettura di
questa seconda parte dell’opera di Victor Franconi, senza aver prima letto
attentamente la prima.
In questa parte dei suoi
scritti si notano una certa difficoltà e qualche incertezza.
La difficoltà si esprime nello
stile della scrittura che evidenzia l’uomo di cavalli e non certo il letterato
abituato a pensare ed a costruire la propria esposizione in modo da renderla di
facile comprensione al lettore. E’ pur vero che, come ho già sottolineato in
altre prefazioni agli scritti dei vecchi maestri, essi scrivevano per “addetti
ai lavori” e non per cavalieri di modeste conoscenze ed esperienze quale è il
lettore moderno. Molti degli argomenti sono dati per scontati o inutili e
comunque già acquisiti e questo elemento non facilita la lettura che per
permettere di comprendere deve farsi molto attenta.
L’incertezza invece, a
mio avviso è da riferire ad elementi tecnici che derivano dalla collocazione
temporale dello scrittore. Franconi è contemporaneo di François Baucher, con
cui collabora nel proprio circo, e nello stesso tempo è contemporaneo di
Steinbrecht, grande oppositore di Baucher. Certamente ha conosciuto Steinbrecht
e ne ha ammirato le capacità, perché per due volte afferma di aver visto
cavalli magistralmente addestrati a Magdeburgo e, come è noto. ai tempi di
Franconi il maestro di Magdeburgo era appunto Gustav Steinbrecht, che per altro
preparava cavalli per il circo.
Essendo però le due
scuole, quella di Baucher e quella di Steinbrecht, profondamente differenti,
tanto da essere contrastanti, Franconi si trova in una condizione ambigua, e in
molti capitoli di questa seconda parte dell’opera diventa ondivago: da un lato
sicuramente vive la tecnica rivoluzionaria baucherista, per quanto riguarda il
ramener, per esempio, e l’uso sovrabbondante degli aiuti di mano e di sperone,
ma, dall’altro, continua a far appello alla moderazione, alla non violenza.
Insiste nell’indicare al lettore i pericoli della lotta con il cavallo e lo
esorta a guardarsi bene dall’esagerare con gli aiuti di mano e di sperone, e
qui si sente l’influsso di Steinbrecht, che diventa chiarissimo ogni volta che
si richiama alla necessità del mantenimento del movimento in avanti.
Ma Franconi è uomo di
spettacolo e di circo e questo lo limita nell’analisi del movimento che tende
sempre ad essere rivolta alla spettacolarità dell’andatura. Privilegia cavalli
di grande espressività, ma nello stesso tempo fa un richiamo anche alle
possibilità dei cavalli più modesti.
In altre parole potrebbe
essere visto come un uomo di cerniera che tende con eclettismo a miscelare la
rivoluzione baucherista con il classicismo di Steinbrecht, nella ricerca di una
modernità non esasperata.
Dopo aver fatto appello
più volte alla moderazione ed alla calma, condannando ogni esagerazione
nell’uso degli aiuti, e senza per altro mai ricordare l’importanza
dell’assetto, improvvisamente parla di “sentimento che penetra l’andatura”
e qui il lettore si può perdere se non legge gli ultimi capitoli il XXIII, XXIV
e XXV, dove in pratica viene abbozzata una spiegazione, come se alla fine della
propria opera, colto sulla via di Damasco, la sua ambiguità trovasse corpo
definitivamente attribuendo all’assetto, che appunto chiama “sentimento che
penetra l’andatura”, una gran rilevanza, quale ne dà il maestro di
Magdeburgo, ma poi, quasi per chiedere venia all’amico e maestro Baucher
ristabilisce la priorità degli aiuti. Personalmente consiglio ai lettori di
anticipare la lettura di questi tre ultimi capitoli, non per rendere merito a
Steinbrecht, ma per ottimizzare la comprensione dell’opera di Franconi.
In ogni caso dobbiamo
ricordare che questa è l’epoca dei grandi scontri tecnici tra D’Aure, Baucher e
Steinbrecht, scontri in cui i relativi sostenitori si sfidavano a duello.
Sarebbe, quindi, superficialità ed ignoranza non riconoscere negli scritti dei
maestri non protagonisti, l’incertezza o l’adesione ad uno dei tre schieramenti
“dominanti”.
Giancarlo Mazzoleni
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