A partire da questo numero vi proporremo alcuni stralci dell’opera “Assetto, andatura e reazioni” di Yves-Louis-Marie Turquet de Beauregard, che scrive sotto lo pseudonimo di L. de Sévy. Il
nostro primo pensiero è stato quello di stampare la traduzione
completa, ma, in corso d’opera, ci siamo resi conto che a tratti il
testo è piuttosto confuso, contradditorio e di difficile comprensione.
Siamo agli inizi nel 1919, alla fine dell’Ottocento il fotografo M.
Marey aveva presentato il proprio lavoro sui movimenti del cavallo,
basato sullo studio dei singoli fotogrammi dei numerosi filmati che
aveva realizzato e questo lavoro aveva chiarito una volta per tutte la
successione delle battute e delle levate del cavallo nelle varie
andature. A tutto ciò si rifà de Sevy che, aggiungendo nozioni di
fisica e di meccanica, ha dato poi
una propria interpretazione al lavoro delle forze che agiscono sul
cavallo, sul cavaliere e il risultato complessivo della loro
interazione. Testo difficile quindi e spesso con la presenza di
presupposti ormai superati, tanto più che era essenzialmente rivolto
all’addestramento della truppa e ai cavalieri di salto. Premesso ciò, poiché molti brani sono di sicuro interesse e, come tali, stimolano
la riflessione, abbiamo pensato di presentarvene alcuni a partire dalla
prefazione fatta dal Generale de Lagarenne che, meglio di noi, esprime
il sentimento dell’equitazione e del suo studio; segue la prefazione di
de Sevy a spiegare gli intendimenti dell’opera e la sua presentazione. Prefazione a Assiette, allures et réactions, ed. Jean-Michel Place, Paris 1993: L'equitazione
non dovrebbe essere considerata una scienza esatta; è un'arte, le cui
modalità variano nei tempi e nello spazio e i cui principi non hanno in
alcun caso il carattere di dogma, ma devono necessariamente adattarsi
al genere di utilizzazione del cavallo proprio a ciascuna epoca, a
ciascun paese, a ciascuna civiltà. È
così che noi vediamo gli Arabi usare dei mezzi di tenuta e di condotta
che non hanno alcun rapporto con quelli che noi pratichiamo; e ci sono
tuttavia meravigliosi cavalieri che ottengono dai propri cavalli una
velocità e un'istantaneità di obbedienza che suscitano l'ammirazione di
chiunque li veda all'opera. Si può dire altrettanto dei Cosacchi la cui equitazione differisce da quella degli arabi quanto la nostra. I
grandi cavalieri del XVIº e XVIIº secolo, i Pluvinel, i Newcastle, ecc.
praticavano un genere di equitazione che noi saremmo tentati di
qualificare come ridicola, ma che era in rapporto con l'uso che essi
facevano del cavallo, pesante palafreno su cui essi si ergevano per
dominare e stroncare l’avversario nei combattimenti, destriero che
maneggiavano nei caroselli, pavoneggiandosi sotto l'occhio della dama
dei loro desideri. Quando
la monta americana fece la propria apparizione nei nostri ippodromi
questa innovazione fu accolta con un indignato stupore, oggi essa si è
imposta e a nessun fantino passerebbe per la testa di montare
diversamente. Gli
enormi ostacoli dei concorsi belgi e italiani, i campionati in altezza,
hanno portato i cavalieri dell'attuale epoca a saltare con il corpo in
avanti: all'inizio questo provocò un concerto di proteste e di
sarcasmo, gli ufficiali tentati di imitare questo gesto nelle prove
militari si videro richiamati all'ordine e penalizzati per la
spiacevole mancanza di stile. Ma una trasferta a Torino fu la via di
Damasco degli écuyer di Saumur, ed ora sembra antidiluviano saltare con
il corpo all’indietro. Senza
bisogno di molti altri esempi si può affermare che l'arte
dell'equitazione evolve quasi continuamente ed è giusto rallegrarsi
quando questa evoluzione trova un serio fondamento nell'osservazione
ponderata, aiutata dalla documentazione fotografica e cinematografica,
e nello studio paziente e scientifico della dinamica animale. Quando
dei cavalieri appassionati per tutto ciò che concerne l'uso del cavallo
si dedicano a delle ricerche sperimentali approfondite, quando essi ci
fanno sapere “il perché” di certi fenomeni di locomozione, nota ma
inesplicabile, quando essi deducono da questo lavoro delle nuove
teorie, bisogna lodarli. E se le loro conclusioni cozzano con le idee
correnti, se esse si formulano in critiche troppo severe o in principi
troppo assoluti, bisogna evitare di essere rigorosi, anche quando
l'ardore delle loro convinzioni li porta troppo lontano, anche quando
essi sembrano scostarsi dai sentieri battuti, che per gli spiriti
timorosi costituiscono il solo cammino corretto. L'autore
della presente opera, la cui personalità si nasconde dietro allo
pseudonimo di Capitano de Sévy, è uno di questi ricercatori
inarrestabili. Tutti gli uomini di cavallo hanno letto con il massimo
interesse i due volumi che ha già pubblicato: Les allures et le cavalier e Saut d’obstacles et galop de course, in
cui ha sviluppato le teorie più nuove e le più documentate sul
meccanismo delle andature supportandole con una serie di eccellenti
riproduzioni fotografiche; in particolare ha messo in luce nel modo più
originale l'influenza del gesto là dove finora si era cercato soltanto
l'influenza della posizione. Proseguendo
le sue pazienti investigazioni, il Capitano de Sévy, in questo nuovo
studio, dopo aver analizzato le ripercussioni dei movimenti del cavallo
sull'assetto del cavaliere, ci mostra come si può attenuare con la
posizione l'effetto delle reazioni del cavallo e mediante quale
ammorbidimento, logicamente scelto, può avvenire l’adattamento del
corpo del principiante a questa posizione, che per quanto si possa dire
è sempre acquisita ben più che naturale. Negli
ultimi capitoli egli esamina l'utilizzazione delle diverse andature
secondo i dettami dell'esperienza e della scienza e infine ci presenta
un sunto di quella che è stata la posizione dell'uomo a cavallo
attraverso i secoli, da Senofonte fino ai precetti dei nostri ultimi
regolamenti militari. “Assetto andature e reazioni”
otterrà senza dubbio un legittimo successo. I giovani istruttori ne
trarranno preziosi insegnamenti ed i vecchi cavalieri, come chi scrive
queste righe, saranno riconoscenti all'autore per aver elargito loro
questi studi equestri che chi ama appassionatamente il cavallo non
dovrebbe assolutamente ignorare. (Général de Lagarenne, ispettore generale delle Rimonte). Introduzione (L. de Sévy). Vorrei tentare di gettare un po' di luce sull'argomento tanto complesso dell'assetto. L'assetto!
Non è forse l’espressione più diffusa tra i cavalieri? Chi di noi è non
sente rivivere nella propria memoria di debuttante la sacra formula:
“bisogna incominciare ad avere l'assetto”? Chi non ha trasalito di
intensa soddisfazione ricevendo il classico complimento: “voi
incominciate ad avere dell'assetto”? È la condanna più assoluta, più
spietata che il temibile giudizio di una commissione d'esame possa
fare: “manca totalmente di assetto” o ancora “non avrà mai l’assetto”.
Come se l'assetto fosse un qualche dono misterioso che la buona fata
dei cavalieri depone, seguendo il proprio capriccio, nella culla dei
neonati e senza il quale tutta la buona volontà è ridotta a nulla. E
tuttavia, se noi cerchiamo una definizione di questa tanto preziosa
qualità non la troviamo da alcuna parte. Il nostro regolamento, che si
prende cura di subordinare all’assetto tutti gli sforzi
dell'apprendista cavaliere, non fa su di esso alcuna precisazione. Questa
lacuna è tanto più incresciosa in quanto senza assetto, ci è stato
sovente ripetuto, il cavaliere non può tentare alcunché. Infatti
constatiamo tutti i giorni in maneggio che la decontrazione e l’uso
preciso degli aiuti sono realizzabili soltanto se il cavaliere
beneficia di un assetto confermato. Se
l'assetto non c'è, il corpo si irrigidisce, ci si spazientisce, la
posizione si altera e l'animale prende velocemente coscienza
dell'incapacità di chi ha la pretesa di dominarlo. Compaiono resistenze
o difese ed il cavaliere perde tanto più rapidamente il controllo dei
propri troppo modesti mezzi quanto più la sua cavalcatura, incoraggiata
dalla timidezza o dalla goffaggine del castigo, lo mette di fronte a problemi più difficili. Tuttavia
una questione preliminare si pone: le difficoltà che abbiamo intravisto
si applicano al cavaliere che cerca di sedersi in sella. Ma è dunque
necessario essere seduti? Il
fantino nell’ippodromo non cerca di combattere le reazioni della
propria cavalcatura; più abilmente, sembrerebbe, si accontenta di
evitarle sopprimendo qualsiasi contatto tra la seduta e la sella; in
passeggiata, al trotto sollevato, il cavaliere cede senza lotta ad una
reazione, poi evita del tutto naturalmente l'impatto della seguente. Piuttosto che scontrarci di fronte a qualche difficile problema, non sarebbe più vantaggioso eluderlo? Lo
scopo che ci prefiggiamo ci invita a rispondere in modo negativo. Noi
ci proponiamo di studiare la formazione di un cavaliere militare:
l'addestramento del cavallo e l'utilizzazione delle armi saranno i suoi
principali pensieri. Egli non può accontentarsi di soluzioni che,
malgrado i loro incontestabili vantaggi, hanno per lui soltanto il
valore di ingegnosi artifici. In
effetti, al galoppo veloce, sostituendo ai punti di appoggio della
seduta quelli delle ginocchia e delle mani il cavaliere paralizza la
libertà dei propri aiuti, il cui intervento precario si riduce
all’azione di brevi istanti. Al
trotto sollevato, l'appoggio sulle staffe che il cavaliere è obbligato
a prendere un tempo su due, ha come risultato di fargli perdere nello
stesso momento il contatto delle gambe con il corpo del cavallo.
L'azione del cavaliere sulla cavalcatura diviene così fuggevole e
dipendente da condizioni di cui il cavallo prende coscienza e ben
presto approfitta in caso di conflitto con il cavaliere. Solo
l’appoggio costante e sicuro dell'assetto permette al cavaliere l'uso
completo e permanente degli aiuti consentendogli il tatto, il vigore e
l’autorità. Con
la discesa delle cosce si stabilisce tra cavallo e cavaliere una
solidarietà di cui quest'ultimo beneficia per agire istantaneamente
sull'equilibrio della propria cavalcatura ed imprimergli i cambiamenti
di attitudine conseguenti ai gesti stessi che egli esegue. Infine il cavaliere seduto si trova nell'unica posizione che permette i lunghi soggiorni in sella. Senza
dubbio la monta americana dei fantini ed i metodi simili soddisfano
maggiormente il principio dell'economia delle forze del cavallo; questo
non deve subire l'inerzia totale e immediata del cavaliere seduto; ma
questa posizione è vantaggiosa soltanto per facilitare uno sforzo
violento, intermittente, corsa o salto, e non soddisfa le esigenze
dell'equitazione militare. C'è
dunque un vantaggio teorico e pratico nell’abbordare questo difficile
problema. Non soltanto un po' di luce faciliterebbe qualunque studio
speculativo sulle questioni equestri, ma permetterebbe un serio
controllo dei metodi di addestramento e di equitazione, sostituirebbe
il razionale all'empirico, donerebbe all'istruttore
i mezzi per ridare fiducia agli scoraggiati o per confermare i
fortunati debuttanti. Proveremo dunque a definire l'assetto; per
arrivarci partiremo dalla comparazione dettagliata tra la posizione che
caratterizza un cavaliere e quella di un principiante. L'idea
di movimento, che è impossibile trascurare in qualunque studio
equestre, ci porterà a legare strettamente la nozione di scioltezza
alla nozione di equilibrio. Saremo dunque spinti ad esaminare il modo
in cui un cavaliere reagisce all’impatto con il cavallo. Studieremo in
che cosa può consistere il fenomeno dell'adattamento che, applicato al
cavaliere, gli dona quella scioltezza così particolare. Faremo in
seguito un rapido esame dei procedimenti di istruzione che permettono
di realizzare questo adattamento. A
questo studio dell’assetto aggiungeremo qualche riflessione sulle
andature. Tenteremo di provare che esse sono non soltanto naturali, ma
anche razionali e in accordo con il principio di economia delle forze
generalmente osservato in natura. Termineremo
con un rapido cenno sulla posizione dell'uomo a cavallo attraverso i
secoli e di quella che fu, nel corso dei secoli, l'evoluzione dei suoi
mezzi di azione e di dominio sulla propria cavalcatura.
G. BELLI |